Dubbi sulle fibre biologiche come soluzione per l'inquinamento da plastica
Uno studio recente mostra come viscosa e lyocell siano più dannose del poliestere per la sopravvivenza degli indispensabili lombrichi
L’inquinamento da plastica (e microplastica) è sicuramente una della minacce maggiori per l’ambiente e quindi è importante che negli ultimi tempi si stia cercando di ridurlo, con l’introduzione di alternative biologiche in settori quali l’industria tessile, ma anche in prodotti come le salviette umidificate o quelli per l’igiene intima femminile.
Purtroppo, però, le cose non sono così semplici: la natura ha un equilibrio delicato e complesso e a volte anche soluzioni sulla carta più sostenibili possono rivelarsi dannose per il suo mantenimento.
È in casi del genere che risulta evidente l’importanza di una ricerca scientifica indipendente da interessi di parte, come mostra in maniera esemplare un nuovo studio rilasciato nell’ambito del progetto BIO-PLASTIC-RISK, in base al quale le attuali alternative bio alla plastica metterebbero a rischio una delle specie animali più importanti per l’ecosistema: i lombrichi.
Poliestere, fibre biologiche e lombrichi
Sì, avete letto bene, ho scritto proprio lombrichi. Chi segue il mio blog da un po’ ne avrà già sentito parlare: senza di essi il settore agricolo avrebbe enormi difficoltà, con disastrosi effetti a catena.
Ora, microfibre di plastica e sue alternative vengono costantemente a contatto con l’ambiente, attraverso il ciclo di lavaggio, l’uso di fango da depurazione come fertilizzante o il semplice processo di usura dei tessuti.
Nonostante ciò ci sono stati finora pochi studi in merito al possibile impatto ambientale dei prodotti biologici, ma finalmente un gruppo di ricerca delle università inglesi di Plymouth e Bath, coordinato da Winnie Courtene-Jones, provvede a rimediare.
Nel loro studio vengono messi a confronto gli effetti sui lombrichi (Esenia fetida, in particolare) delle tradizionali fibre di poliestere (tra cui spicca il noto PET, classificato come plastica) e di due fibre biologiche, la viscosa e il lyocell. I risultati, come avrete già capito, non sono proprio favorevoli ai prodotti bio.
La ricerca che spinge a trovare alternative
Innanzitutto, Courtene-Jones e colleghi hanno esposto dei lombrichi ad alte concentrazioni di fibre: nel caso del poliestere, il 30% degli animali è morto dopo 72 ore, il che ovviamente è tragico, ma niente al confronto ai danni causati dalle fibre biologiche, che “vantano” tassi di mortalità intorno al 60% per il lyocell e addirittura all’80% per la viscosa.
Successivamente si è passati a concentrazioni inferiori, ma comunque rilevanti per l’ambiente, e anche in questo caso cattive notizie per le biofibre: lombrichi esposti a viscosa hanno evidenziato un tasso riproduttivo inferiore rispetto a quelli esposti a poliestere; inoltre, quelli esposti a lyocell hanno mostrato un tasso di crescita ridotto e una maggiore predisposizione a scavare e ritirarsi all’interno di tunnel rispetto a quelli esposti alle altre fibre.
Come se non bastasse, uno studio precedente, sempre coordinato da Courtene-Jones, aveva già messo in guardia contro l’uso di bustine di tè biodegradabili, che possono aumentare il tasso di mortalità dei lombrichi anche del 15%, oltre a inficiarne la riproduzione.
Insomma, proprio alla vigilia del giro finale di negoziazioni in merito a un possibile Trattato Globale sulla Plastica (Global Plastics Treaty), che riunisce i leader mondiali a Busan (Corea del Sud), la scienza indica chiaramente che per affrontare al meglio il problema, indubbiamente molto grave, è il caso di valutare bene i possibili impatti delle soluzioni, per quanto sulla carta attraenti, prima di commercializzarle.