Come stanare la materia oscura usando il Sistema Solare
Ricercatori del MIT propongono di esaminare minuscole variazioni nell'orbita di Marte per rilevare buchi neri primordiali di passaggio
Materia oscura: questa misteriosa sostanza che pervade l’universo, in un rapporto di oltre 5 a 1 con la materia ordinaria di cui sono fatti stelle e pianeti, ma che non emette alcuna radiazione luminosa e quindi ci risulta a tutti gli effetti invisibile.
“Se è così, come facciamo a sapere che esiste?”, giustamente mi direte. La risposta è che senza di essa sarebbe molto difficile spiegare il modo in cui le stelle orbitano all’interno delle galassie e come le galassie stesse non schizzino via dagli ammassi, vista la loro incredibile velocità orbitale.
Insomma, c’è bisogno di qualcosa che ancori la materia ordinaria con la sua attrazione gravitazionale (quella sì, misurabile), ma cosa? I candidati al momento più popolari sono due ipotetiche particelle (assioni e WIMP), ma di recente sta prendendo piede l’ipotesi che essa sia costituita, almeno in parte, dai cosiddetti buchi neri primordiali (PBH, ossia Primordial Black Holes).
E c’è di più: ora un gruppo di ricerca del MIT suggerisce anche un metodo per scovarli, usando un rilevatore decisamente insolito: il nostro Sistema Solare e Marte in particolare.
Buchi neri grandi quanto un atomo
Pochi istanti dopo il Big Bang, nel neonato universo erano presenti zone di enorme densità e pressione, caratteristiche che ben si sposano con la creazione di buchi neri, regioni dello spaziotempo con una gravità talmente elevata che nemmeno la luce riesce a sfuggirvi.
Gli esemplari più piccoli che conosciamo hanno una massa pari a circa tre volte quella del Sole, ma i PBH ipoteticamente creati agli albori dell’universo potrebbero essere molto meno massicci, più o meno come un asteroide.
Il problema è che in questo caso sarebbero grandi quanto un atomo (!) e quindi estremamente difficili da rilevare. Ciò però non sembra scoraggiare il dottorando Tung X. Tran e colleghi, che come detto hanno pensato di chiedere aiuto nientemeno che al Sistema Solare.
L’idea, sulla carta, è piuttosto semplice: i buchi neri, anche quelli minuscoli, hanno una gravità misurabile (nel caso dei PBH pari, appunto, a quella di un asteroide) e quindi, se si trovassero ad attraversare il nostro sistema (cosa che, secondo i ricercatori, dovrebbe avvenire almeno una volta ogni dieci anni), influenzerebbero in misura minima le orbite dei corpi celesti al suo interno.
Influenze gravitazionali e correlazioni celesti
Ma saremmo davvero in grado di rilevare tali, minuscole variazioni? I ricercatori credono di sì e prendono ad esempio Marte per spiegarlo (la Terra e la Luna sono state subito scartate, in quanto gli effetti risulterebbero troppo difficili da attribuire a un singolo PBH).
Del pianeta rosso, infatti, si conosce la distanza dalla Terra in maniera estremamente precisa (con uno scarto di circa dieci centimetri!) e quindi, almeno in teoria, sarebbe possibile individuare l’influenza di un PBH di passaggio, anche se a qualche centinaio di milioni di chilometri di distanza.
Ovviamente la pratica non è così semplice, dato che bisognerebbe includere nei calcoli tutti gli asteroidi nelle vicinanze, ma per ovviare al problema il gruppo propone un ingegnoso stratagemma: considerare le correlazioni tra corpi celesti.
In sostanza, invece di esaminare le variazioni orbitali del solo Marte, si darebbe un’occhiata anche a quelle di Venere (per esempio) nelle settimane/mesi successivi al rilevamento di quelle marziane, rendendo più facile l’operazione.
Oggettivamente si tratta comunque di un test difficile da realizzare e che richiede calcoli matematici molto complessi, ma sulla carta non impossibile e piuttosto economico, quindi perché non provarci? D’altronde, con LIGO siamo stati in grado di misurare effetti gravitazionali molto più piccoli delle dimensioni di un protone!