Afantasia, ovvero la mancanza di immagini mentali
Fenomeno iniziato a studiare solo di recente, permangono molti dubbi, ma non suscita preoccupazioni nella comunità scientifica
Oggi vi propongo di partecipare a un semplice esperimento: chiudete gli occhi e immaginate una mela. Fatto? Bene, adesso valutate quanto è vivida l’immagine mentale che avete creato.
Siete riuscite/i a visualizzare la mela praticamente come se fosse davvero davanti a voi? O magari vi è sembrata più una sorta di fioco ologramma? Oppure non siete proprio state/i in grado di vedere niente?
Se vi riconoscete in quest’ultimo gruppo, probabilmente sarete un po’ confuse/i: “com’è possibile visualizzare qualcosa nella propria mente?”, mi direte. Niente paura: fate semplicemente parte di una percentuale compresa tra l’1 e il 4% della popolazione che è priva di immagini mentali, a causa di un fenomeno noto come afantasia.
Percezione e immagini mentali
Quando percepiamo qualcosa di fronte a noi, onde elettromagnetiche (quelle della luce) entrano nei nostri occhi, vengono tradotte in segnali neurali e inviati alla corteccia visiva che li elabora; infine, l’informazione passa alle regioni relative alla memoria o alla semantica, consentendoci di capire cosa stiamo guardando.
Il processo di creazione di immagini mentali può essere descritto come l’inverso della percezione: si parte dal capire cosa si vuole immaginare, con tale informazione che passa prima alle regioni cerebrali della memoria o della semantica e poi alla corteccia visiva, che realizza uno “schizzo” dell’immagine.
Putroppo, nonostante l’afantasia sia stata descritta per la prima volta nella letteratura medica più di 140 anni fa, c’è ancora molto che non sappiamo: ad esempio, dove inizia l’immaginazione mentale? Oppure, qual è il ruolo preciso della corteccia visiva? O, più in generale, come misurare la realtà interiore di una persona?
Difatti, ancora oggi molti test si basano sulle dichiarazioni dei partecipanti, con il più famoso (il Vividness of Visual Imagery Questionnaire) che risale addirittura al 1973: in tali casi, oltre chiaramente all’elemento soggettivo, le differenze riportate possono anche semplicemente basarsi su ambiguità nella descrizione.
Fortunatamente, dare un nome al fenomeno (col merito che va al neurologo Adam Zeman e a un suo amico classicista nel 2015) ha contribuito enormemente a popolarizzarlo, sia tra il pubblico che nel mondo scientifico, e così da allora in poi sono iniziati a spuntare alcuni interessanti studi sull’afantasia.
Ciò che sappiamo sull’afantasia
Per dimostrare che i vari gradi di chiarezza tra immagini mentali erano reali e non dipendenti dalla loro descrizione, un gruppo diretto dalla ricercatrice in neuroscienze cognitive Rebecca Keogh mise a punto un paio di test: uno per mettere alla prova l’abilità del cervello di ritenere immagini visuali, un altro per misurare sudorazione e risposta della pupilla a immagini mentali (evidentemente ispirato al famoso Voigt-Kampf di Blade Runner).
I risultati, pur non definitivi, sembravano indicare che le differenze sono reali.
Successivamente, la ricercatrice nel campo della memoria Cornelia McCormick iniziò a chiedersi come facessero persone con afantasia a ricordare le proprie vite, dato che le immagini mentali sono intimamente connesse ai ricordi.
In effetti, sottoponendo a scansione i cervelli di persone mentre rievocavano esperienze passate, McCormick e colleghi scoprirono che quelle con afantasia tendevano ad avere ricordi autobiografici più sfocati e presentavano una minore attività nell’ippocampo, che aiuta a codificare e recuperare tali ricordi.
Sorprendentemente, però, la loro corteccia visiva risultava più attiva rispetto a quelle di soggetti con capacità di immaginazione visuale nella media: che tale attività maggiore possa in qualche modo inibire i segnali richiesti per “estrarre” immagini mentali? O magari le persone con afantasia hanno accesso a tali immagini (il che è spesso vero nei loro sogni), ma per qualche motivo non riescono a integrarle nella loro esperienza soggettiva?
Per finire, vanno ricordati gli studi di Zeman (sì, lo stesso di cui sopra) e del collega Paolo Bartolomeo.
Il primo, tramite scansioni cerebrali effettuate con risonanza magnetica funzionale, sembra aver scoperto che le persone con afantasia, quando a riposo, presentano delle connessioni più deboli tra la corteccia prefrontale (sede dei centri di controllo) e quella visiva (sede dei centri di percezione).
Il gruppo di Bartolomeo, invece, oltre a confermare il lavoro di Zeman, ha sottoposto a scansione persone con e senza afantasia nell’atto di immaginare forme, volti e luoghi: nonostante venissero attivate le stesse aree cerebrali, le prime presentavano una disconnessione tra la corteccia prefrontale e il cosiddetto fusiform imagery node, una regione scoperta dallo stesso Bartolomeo nel 2020 e implicata in elaborazioni visive.
Conclusioni e considerazioni
Tirando le somme, pare che nelle persone con afantasia si formino connessioni differenti tra i centri visivi e altre regioni cerebrali integrative; come però ci sono vari livelli di afantasia, così è possibile che tali scoperte valgano solo per una parte dei soggetti interessati, mentre per altri potrebbero esserci diverse spiegazioni neurali.
Comunque sia, una cosa è unanimemente accettata nel mondo scientifico: l’afantasia non è una malattia, ma semplicemente un modo diverso di percepire il mondo. Ciò è dimostrato dal fatto che i soggetti interessati non hanno difficoltà particolari nella vita quotidiana e spesso non hanno nemmeno problemi a descrivere visivamente cose o persone.
Inoltre, la mancanza di immagini mentali è cosa ben diversa dalla mancanza di immaginazione: molti artisti dichiarano di non vedere le prime, ma ciò evidentemente non costituisce un impedimento per la loro creatività.
Anzi, avere l’”occhio mentale” permanentemente chiuso può anche avere dei vantaggi: le immagini, infatti, sono spesso strettamente correlate alla salute mentale, quindi persone con afantasia potrebbero essere meno soggette a tale tipo di problemi.