Come terraformare Marte usando risorse in situ
Un recente studio propone l'utilizzo di nanoparticelle di polvere per innalzare la temperatura sul pianeta e renderlo ospitale alla vita batterica
Marte: così vicino, eppure così lontano. Nonostante gli essere umani vi abbiano inviato sonde, rover e altri mezzi robotici già a partire dagli anni 60 del secolo scorso, la possibilità di far atterrare sulla sua superficie arida e desolata una persona in carne e ossa sembra ancora piuttosto lontana.
Perlomeno c’è da dire che anche l’idea di terraformare il pianeta rosso, cioè rendere la sua atmosfera e il suo ambiente più simili a quelli terrestri, risale a varie decadi fa, se non fosse che tutte le proposte in merito sono state scartate in quanto giudicate troppo costose e/o futuristiche dal punto di vista tecnologico.
Coi recenti progetti di costruire avamposti umani sulla Luna, però, si è ricominciato a parlare seriamente della terraformazione di Marte, con uno dei piani più popolari che consisterebbe nello scatenare un effetto serra per scaldarne la superficie; purtroppo ciò richiederebbe un enorme quantitativo di gas serra, difficili e costosi da trasportare o estrarre in situ.
Ecco quindi che ha suscitato un certo interesse un nuovo metodo proposto in un recente studio da un gruppo di ingegneri e geofisici americani: terraformare Marte con le nanoparticelle, sfruttando risorse già presenti sul pianeta.
Le basi della terraformazione
Così come Roma non è stata costruita in un giorno, a maggior ragione terraformare un pianeta non è impresa né breve, né semplice. Ad ogni modo, a grandi linee è possibile dividere il processo in tre fasi:
Riscaldare il pianeta;
Inspessire l’atmosfera;
Sciogliere i ghiacci d’acqua.
Come si può immaginare, tali fasi sono complementari tra loro, cioè i progressi fatti in una beneficiano anche le altre. Ad esempio, riscaldare il pianeta provocherebbe lo scioglimento delle calotte polari e del permafrost, rilasciando acqua sulla superficie e vapore acqueo nell’atmosfera.
Nel caso specifico di Marte, verrebbero liberate anche grandi quantità di ghiaccio secco presente nelle calotte polari (in particolare nell’emisfero meridionale), contribuendo ulteriormente all’inspessimento dell’atmosfera e al riscaldamento del pianeta.
Stando ai calcoli effettuati dall’ingegnere aerospaziale Robert Zubrin (che non ha preso parte allo studio in esame) nel suo The Case for Mars, ciò genererebbe una pressione atmosferica di circa 300 millibar, pari cioè al 30% di quella terrestre a livello del mare: non tanto da poter stare all’aperto senza vestiti pesanti e ossigeno compresso (stile alpinisti), ma perlomeno non sarebbe necessaria una tuta spaziale.
Nanobarre e riscaldamento superficiale
Tutto bello sulla carta, ma come detto il problema è l’attuazione. Ciò non sembra però spaventare Samaneh Ansari, ricercatrice presso il Department of Electrical and Computer Engineering (ECE) della Northwestern University e prima autrice dello studio suddetto.
Grazie ai campioni di roccia e suolo marziano prelevati e analizzati da missioni quali Curiosity e Perseverance, sappiamo che i granelli di polvere del pianeta sono ricchi di ferro e alluminio, il che ha dato un’idea ad Ansari e al suo gruppo.
Secondo i ricercatori, infatti, si potrebbero modellare tali particelle di polvere in nanobarre in grado di condurre elettricità della lunghezza di circa 9 micrometri (pari allo spessore di un capello molto sottile).
Tali nanobarre verrebbero quindi sistemate in diverse configurazioni e rilasciate nell’atmosfera, da dove sarebbero in grado di assorbire e sparpagliare la luce del Sole, provocando l’innalzamento delle temperature su Marte.
Promettenti simulazioni
Per mettere alla prova la loro idea, Ansari e colleghi hanno creato delle simulazioni sui cluster di computer Quest high-performance e Midway 2 (rispettivamente presso la Northwestern e la Chicago University), usando due diversi modelli climatici basati su un tempo di vita delle particelle di polvere pari a dieci anni e sul lancio in atmosfera di 30 litri di nanoparticelle al secondo.
I risultati sono stati decisamente incoraggianti: il processo dovrebbe scaldare Marte di oltre 30°, il che sarebbe sufficiente per provocare lo scioglimento delle calotte polari, per di più in maniera 5000 volte più efficiente delle precedenti proposte per scatenare l’effetto serra sul pianeta.
In aggiunta, l’incremento medio della temperatura renderebbe l’ambiente marziano ospitale per la vita batterica: attraverso l’introduzione di batteri fotosintetici (come i cianobatteri), l’anidride carbonica nell’atmosfera potrebbe essere lentamente convertita in ossigeno, come successo 3,5 miliardi di anni fa sulla Terra.
Ovviamente ci vorrebbero comunque decenni per eseguire il processo, ma sulla carta esso sembra logisticamente più semplice e molto più economico delle alternative.
Feedback climatico e sfide da superare
Ma veniamo ora alle note dolenti: prima che la proposta possa essere testata sul campo servono comunque ulteriori ricerche, in particolare in merito a come le particelle verrebbero impattate dai cambiamenti atmosferici.
Infatti, al momento le nuvole su Marte si formano e generano precipitazioni grazie al ghiaccio secco che si condensa nell’atmosfera e ricade sulla superficie sotto forma di neve di CO2: se le calotte polari dovessero sciogliersi, si potrebbe creare maggiore copertura nuvolosa e precipitazioni sotto forma di acqua, che potrebbe a sua volta condensarsi attorno alle particelle e farle ricadere sulla superficie.
Questo e altri possibili meccanismi climatici di feedback (dove la modifica di un aspetto influenza anche altri) potrebbero creare numerosi problemi, ma perlomeno l’idea dei ricercatori è reversibile: basta smettere di lanciare nanobarre nell’atmosfera e col tempo anche l’effetto di riscaldamento si ferma.
Insomma, siamo ancora lontani da un’implementazione pratica della proposta di Ansari e colleghi, ma essa rappresenta comunque un primo passo nella giusta direzione verso l’anelata presenza umana sul pianeta rosso.