Anche i batteri percepiscono il cambio delle stagioni
Quarant’anni dopo la scoperta del ritmo circadiano nei cianobatteri, inaspettatamente una ricercatrice ne dimostra anche il fotoperiodismo
Il fotoperiodismo, cioè la capacità di adattarsi all’arrivo di giornate con più o meno ore di luce (che segnalano l’approssimarsi di stagioni rispettivamente più calde o fredde), è una caratteristica estremamente comune sia nel mondo animale che vegetale.
Alberi che perdono le foglie, uccelli che migrano, esseri umani che tirano fuori i maglioni dall’armadio sono tutti segni inequivocabili dell’accorciamento della durata del giorno e dell’avvicinarsi dell’inverno.
Ma ci sono anche organismi la cui durata vitale non raggiunge quella di una stagione e, a volte, neanche quella di un giorno: in questi casi sarebbe lecito aspettarsi che tali meccanismi di adattamento siano assenti.
Eppure la farfalla monarca vola verso il più caldo sud per l’inverno, nonostante sarà solo la sua progenie a fare ritorno al nord, e ora si è scoperto che persino alcuni batteri monocellulari si preparano per l’arrivo della stagione fredda, nonostante la loro aspettativa di vita sia di appena qualche ora.
Il ritmo circadiano dei cianobatteri
Nella seconda metà del secolo scorso era risaputo che praticamente tutti gli organismi multicellulari posseggono un orologio circadiano, cioè un meccanismo interno che scandisce il ciclo giorno-notte.
Che una cosa del genere fosse presente anche in organismi semplici come batteri monocellulari era invece ancora controverso e lo rimase fino al 1986, quando il fisiologo vegetale Nathanaël Grobbelaar eseguì un esperimento fondamentale con dei cianobatteri.
Si tratta della forma di vita più antica ancora presente sulla Terra, che ricava energia dalla luce solare tramite fotosintesi e a cui si deve, circa 2,4 miliardi di anni fa, la trasformazione chimica della nostra atmosfera, che fu arricchita di ossigeno.
Grobbelaar li espose a cicli alternati di luce e buio, notando che essi processavano l’azoto, un nutriente fondamentale, solo durante la notte simulata: ecco scoperto il primo organismo monocellulare a mostrare un ritmo circadiano.
Colonie di cianobatteri che pulsano durante un ciclo giorno-notte, quando un gene coinvolto nel loro orologio circadiano viene espresso di più (colori più accesi) o di meno. L’effetto è stato ottenuto allegando un altro gene bioluminescente a quello dell’orologio. Crediti: Carl Hirschie Johnson
Gli ingranaggi Kai dell’orologio
Sulla strada di tale risultato, il biologo Carl Hirschie Johnson della Vanderbilt University, Nashville (USA) ebbe un’idea: provare a identificare le molecole che, come ingranaggi in un orologio meccanico, erano responsabili del funzionamento dell’orologio biologico dei cianobatteri.
L’obbiettivo fu raggiunto nella metà degli anni 90, quando Johnson e colleghi identificarono tre geni e le corrispondenti proteine (KaiA, KaiB e KaiC) in grado di far “ticchettare” il suddetto orologio.
Sembrava non ci fosse molto altro da scoprire in merito al ritmo biologico dei cianobatteri, ma nel 2018 fu una dottoranda dello stesso Johnson, la cronobiologa Luisa Jabbur, a dimostrare che non era affatto così.
La sua idea era ancora più audace di quella avuta dal suo “mentore” quarant’anni prima, vista la durata vitale di poche ore dei cianobatteri: e se essi fossero in grado anche di attuare fotoperiodismo?
Fotoperiodismo e cianobatteri
Nonostante lo scetticismo iniziale di Johnson, a Jabbur bastò appena una settimana per ottenere una prima conferma sperimentale della sua intuizione: di due colture di cianobatteri immerse in acqua gelata (per simulare l’arrivo dell’inverno), una apparì molto più in salute dell’altra, mostrando un bel colore verde sulla piastra di Petri.
Il motivo? Quest’ultima era stata precedentemente esposta a periodi più lunghi di buio ed aveva avuto quindi la possibilità di prevedere ciò che stava per accadere.
Lo stesso risultato si presentò in un successivo, più complesso esperimento, stavolta con tre colture di cianobatteri esposti per otto giorni a periodi diversi di luce e buio, atti a simulare inverno (8 ore di luce e 16 di buio), equinozio (12 ore di luce e buio) ed estate (16 ore di luce e 8 di buio).
La coltura “invernale” sopravvisse fino a tre volte meglio delle altre due in seguito a immersione in acqua gelata. A questo punto restava solo da chiedersi: com’è possibile tutto ciò? La risposta si trovava nei geni e nelle proteine Kai isolati dal team di Johnson alla fine del secolo scorso.
Membrane a chiusura del cerchio
Con l’aiuto del collega Benjamin P. Bratton, Jabbur esaminò la composizione molecolare delle membrane cellulari dei cianobatteri, essendo noto che esse sono sensibili alle temperature esterne. In particolare, i lipidi che compongono le membrane diventano più rigidi in presenza di freddo e più fluidi se invece fa caldo, un po’ come capita al burro.
Molti organismi sono in grado di modificare le loro membrane, in un processo detto desaturazione, per consentire alle molecole di continuare a muoversi liberamente, indipendentemente dalla temperatura (entro certi limiti, ovviamente).
Come sperato, dagli esperimenti risultò che i cianobatteri invernali avevano attuato una desaturazione più spinta dei lipidi, per impedire la solidificazione della membrana cellulare.
Infine, a chiudere mirabilmente il cerchio, i ricercatori riuscirono a stabilire un collegamento tra ritmo circadiano e fotoperiodismo nei cianobatteri: se infatti a quelli esposti a condizioni invernali venivano cancellati i geni che producono le proteine Kai, essi non riuscivano più ad adattare i propri lipidi e quindi non mostravano più alcun vantaggio rispetto alla coltura estiva.
Ciò che ancora non sappiamo
Lo studio, per quanto straordinario, presenta comunque ancora dei punti aperti: ad esempio, pur essendo evidente che gli ingranaggi dell’orologio circadiano siano indispensabili anche per il fotoperiodismo, non è dimostrato che tale orologio effettivamente codifichi anche l’informazione relativa alla durata del giorno (rapporto luce-buio).
Inoltre, tutti gli esperimenti sono stati effettuati solo su una singola specie di cianobatteri (Synechococcus elongatus), quindi bisognerà attendere ulteriori test anche su altri tipi di batteri, che spesso hanno meccanismi biologici molto diversi.
Comunque sia, è sorprendente vedere come un semplice organismo monocellulare si sia evoluto in modo da dare valore, per il bene della propria specie, a ciò che avviene su scale temporali molto più lunghe della propria esistenza individuale: un esempio da cui gli esseri umani avrebbero tanto da imparare.
Articolo interessantissimo, davvero. Non solo per l'argomento in sé, di come possa fare un organismo monocellulare che vive poco a capire quando fa buio prima, ma anche perché mi hai fatto conoscere sti cianobatteri.
La pagina wiki su di loro è molto interessante: piccolissimi (da soli), antichissimi, velenosissimi (alcuni di loro riescono a bloccare il sistema nervoso e fanno morire i pesci per paralisi respiratoria...). Vivono in acque fino a 75 °C (quindi il riscaldamento climatico gli fa un baffo, e infatti sono anche in aumento) e non so se temerli o essergli infinitamente grato per il lavoro che fanno e che hanno fatto.
Quando l'umanità si estinguerà, è possibile che sti cosetti prenderanno possesso della Terra, colorandola tutta di verde. Un po' come lo stagno accanto alla Jabbur, nella foto.